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martedì 11 giugno 2019
I misteri di Sutton Hoo
1800, periodo imprecisato: un contadino, intento ad arare il suo campo, trova una spilla d’oro, un ritrovamento che potrebbe far presagire la presenza di un antico tesoro. Le ricerche effettuate in seguito si rivelano del tutto infruttuose; le uniche cose che vengono alla luce sono soltanto degli antichi tumuli e una tana per conigli.
Quella che sembra essere una delle tante ricerche senza esito sta per essere dimenticata con il passare del tempo, ma nel sottosuolo della proprietà di Sutton Hoo si cela davvero un mistero, e sarà compito di Edith May Pretty, la nuova proprietaria, riportarlo alla luce.
Il sito in questione si trova nei pressi di Woodbridge, nel Suffolk (Inghilterra), e rappresenta di certo un luogo di primaria importanza per tutti coloro che studiano il periodo alto medioevale; un luogo caro all’archeologia inglese e non certo privo di enigmi.
I tumuli scavati nella proprietà erano undici in tutto, ubicati in una scarpata, a circa 400 metri dalla riva orientale del Deben, un estuario interessato costantemente dalle maree.
La nuova proprietaria contattò l’Ipswich Museum il quale, interessato alle argomentazioni esposte, mandò sul posto Basil Brown, l’esperto del museo.
Gli scavi iniziarono nel 1938 con l’aiuto di alcuni giardinieri, ma i primi tre tumuli si rivelarono ben presto senza alcun valore storico, a parte una piccola urna, uno scudo e la punta di una lancia, tutto il resto era già stato saccheggiato.
Nonostante ciò, i ritrovamenti, sia pure esigui, confermavano che ci si trovava in presenza di una tomba risalente al periodo anglosassone, e questo bastò per continuare gli scavi.
I due tumuli successivi delusero ancora una volta le aspettative; anche quelli erano già stati depredati e contenevano soltanto frammenti di ciotole e ceramiche; si decise comunque di andare avanti.
Non sapendo più da che parte proseguire, e afflitto da un considerevole sconforto, Basil Brown decise di affidarsi alla sorte e fece scegliere a caso alla signora Pretty quale dei restanti tumuli scavare.
Il risultato di questa decisione sarebbe passato alla storia, tanto da coinvolgere addirittura Sir Thomas Kendrick, il direttore del Britsih Museum, che ne parlò come la scoperta archeologica più notevole mai compiuta in Inghilterra.
Il tumulo scelto fu quello più grande, posto in prossimità del fiume e quasi nascosto da un gruppo di alberi; era alto 2,7 metri, largo 23 e lungo 30; si iniziò a scavare un solco largo 2 metri e quasi subito le vanghe dei giardinieri si scontrarono con un gruppo di chiodi corrosi dal tempo.
Liberato con cura lo scavo di tutta la terra intorno, agli occhi di Brown si presentò uno spettacolo stupefacente, la prua di un vascello di enormi proporzioni.
Anche se lo scenario intorno suggeriva una profanazione della tomba, con molta probabilità i ladri si erano fermati a livello terra, probabilmente convinti che fosse fatica inutile continuare.
L’11 giugno 1939 si era tolto abbastanza materiale da avere un’idea complessiva di quanto celato nel tumulo; si trattava della struttura di una imbarcazione, o meglio della sua impronta sul terreno, visto che il legno si era ormai putrefatto e rimanevano soltanto i chiodi che, originariamente, avevano tenuto ferme le assi allo scheletro.
Le dimensioni del tumulo e la lunghezza della nave suggerivano una scoperta davvero notevole, il fatto poi che fosse costume sia degli antichi scandinavi che degli anglosassoni seppellire il re o il capo dentro la sua nave, lasciava presagire qualcosa di estremamente importante.
Le difficoltà però non mancavano di certo; nessun archeologo si era mai trovato nella condizione di dover scavare una nave, inoltre le condizioni del legno, ormai del tutto disintegrato, non rendevano certo agevoli le operazioni.
L’impronta del vascello identificava una imbarcazione lunga ben 27 metri e larga 4, costruita con il metodo del fasciame sovrapposto e facendo uso di assi di quercia; a far muovere la nave erano stati 38 rematori; aveva inoltre una profondità massima di 1,3 metri e un pescaggio di 0,6 metri.
Le domande iniziarono subito a farsi strada tra gli archeologi: come era stato possibile trasportare il vascello a Sutton Hoo?
Dal fiume alla scarpata si contava circa mezzo chilometro, al quale si dovevano aggiungere altri trenta metri per arrivare in cima.
Con estrema probabilità si era fatto uso dei classici rulli; una volta tolti la nave era stata fissata con delle corde, quindi, dopo averla abbassata, si era costruito il tumulo sopra per poi passare alla camera mortuaria.
Questo enorme e massacrante lavoro lasciava presagire la presenza di una salma molto importante e di un altrettanto favoloso tesoro.
Man mano che si andava avanti vari oggetti venivano alla luce, molti dei quali ormai così corrosi che risultava pericoloso anche il solo spostarli da un posto all’altro; procedendo con estrema cautela vennero rinvenuti una lancia di ferro lunga circa due metri con in cima un cervo realizzato in bronzo, probabilmente un vessillo, quindi una grossa pietra per affilare con scolpita un viso dai tratti severi, uno scudo circolare, il frammento di un elmo, uno strumento musicale a sei corde, corni per bere e una bardatura d’oro.
Il tesoro stava pian piano venendo alla luce; successivamente si presentarono alcuni fermagli d’oro, una spada lunga novanta centimetri, delle monete d’oro e dei curiosi cucchiaini sui quali erano incisi i nomi Saulos e Paulos.
Si trattava quindi di una tomba contenente tutto il necessario per l’aldilà, dalle armi ai contenitori per il cibo, agli effetti personali; curiosamente l’intero scavo ricordava la descrizione di una sepoltura di tipo navale descritta nel poema epico Beowulf, redatto da un anonimo poeta anglosassone.
La descrizione riguardava la tomba del mitico re danese Scyld (Skjoldr, Skioldus o Skiold), una tra i primi re della leggenda danese, menzionato anche nella prosa Edda e in altri poemi storici.
Si trattava veramente della tomba di Scyld?
La risposta a questo quesito non può essere data, poiché, una volta completati gli scavi, non venne alla luce niente altro; la tomba, pur completa di tutto il necessario per accompagnare il defunto nel suo ultimo viaggio, non ne aveva mai ospitato il corpo!
Quello che sembra essere un mistero sulla falsariga della più famosa Piramide di Cheope contenente un sarcofago vuoto, si offriva adesso alla più ampia sfera di soluzioni possibili ma anche ad altrettante domande.
Per quale motivo cimentarsi in una così immane fatica senza un corpo da onorare? Chi avrebbe dovuto ospitare il tumulo? Doveva certo trattarsi di un personaggio di grande importanza, qualcuno per il quale valeva la pena lavorare duramente, ma chi?
La prima ipotesi fu che il corpo fosse stato cremato e le ceneri disperse, ma non esiste alcun presupposto che possa mantenere in piedi questa idea, così come non esistono esempi del genere senza che figuri anche un rogo nel quale vengono bruciati sia i beni materiali che la nave stessa.
In ogni caso, anche se l’assenza del corpo tende ad alimentare l’enigma, dall’altro lato, paradossalmente, può diventare un indizio che porta alla sua identificazione.
La prima traccia da seguire sono le 37 monete d’oro, tutte coniate in vari paesi dell’Europa occidentale, ma neanche due che riportino i segni della stessa zecca.
Tutte le monete vennero rinvenute in una sola borsa, cosa che porta a pensare ad una vera e propria collezione oppure, ad un dono fatto al nostro misterioso personaggio.
Partendo dal fatto che tutte le monete appartengono al periodo merovingio, e che in quello stesso periodo non esistevano più di 200 zecche in tutto il territorio, il campo inizia a restringersi; ulteriori indizi vengono poi dalle varie analisi numismatiche.
Secondo il collezionista francese Jean Lafaurie, una vera autorità nel campo della monetazione merovingia, le monete possono essere datate intorno al 625, della stessa opinione è J. P. C. Kent, curatore della sezione monete e medaglie del British Museum.
Abbiamo quindi una ipotetica data della sepoltura, ma non siamo ancora in grado di dare un nome al corpo, per fare questo è necessario accedere alle informazioni lasciate nelle opere di colui che è stato riconosciuto come il padre della storia inglese, un monaco vissuto nel monastero benedettino di San Pietro e San Paolo a Wearmouth (oggi Sunderland), il Venerabile Beda.
Tra le opere redatte da questo storico e monaco inglese figura una “Historia ecclesiastica gentis Anglorum”, composta intorno al 700 d.C, nella quale, tra le altre cose, si parla della conversione dell’Anglia orientale alla religione cristiana.
Questo evento ebbe inizio con il battesimo di Redwald, che in seguito governò come re supremo assumendo il nome di Bretwald e trovò la morte nel 624 o nel 625.
La storia di questo personaggio è alquanto controversa; convertitosi inizialmente al cristianesimo, in seguito ritornò ai culti pagani per poi proseguire ad onorare entrambe le religioni.
A questo punto dobbiamo ricordare uno dei reperti ritrovati nel tumulo, due cucchiaini con incisi i nomi di Saulos e Paulos; possibile mettere insieme tutta questa serie di informazioni?
Si potrebbe ipotizzare che i due cucchiaini appena menzionati siano il ricordo del battesimo di Redwald, il quale, professandosi cristiano ma rimanendo pagano nel cuore, venne ricordato cercando un sincretismo tra le due fedi, sepolto in terra consacrata ma con un cenotafio in stile pagano, mancante del corpo.
Questa spiegazione, sia pure considerata da molti la più vicina alla realtà, non è sempre comunemente accettata.
Alcuni, ad esempio, sostengono che una delle monete rinvenute appartenga al regno di Dagoberto, il quale morì circa tredici anni dopo la morte di Redwald, ipotesi che renderebbe inconsistente la ricostruzione storica appena effettuata.
Gli unici che a questo punto potrebbero essere identificati come il corpo inesistente di Sutton Hoo sono i figli di Redwald, Sigebehrt e Ecgric, che governarono congiuntamente.
I due fratelli, dopo varie peripezie, si riunirono nel 640 per combattere contro Pendra, il re di Mercia, uno dei sette regni anglosassoni che si trovava in quella che è oggi la regione delle Midlands.
Entrambi vennero uccisi poco tempo dopo; da Ecgric il potere passò ad Anna, fervente cristiano, che morì nel 654.
Proprio da quest’ultimo personaggio nasce la successiva ipotesi sul mistero di Sutton Hoo; il tumulo sarebbe in realtà un monumento fatto erigere da Anna per celebrare il valore di Ecgric; d’altra parte una sepoltura di tale importanza, per la quale era stato usato parte del tesoro reale, poteva essere stata eretta soltanto da un re per un altro re.
I dubbi comunque continuano a rimanere: possibile pensare che un re cristiano abbia affidato a dei pagani la costruzione del cenotafio?
Il mistero continua.
Credit Foto: https://brewminate.com/ritual-landscapes-in-pagan-and-early-christian-england/
giovedì 3 marzo 2011
Maya: sulle tracce del tesoro.

Guidati da Joachim Rittsteig, esperto di scrittura maya, un gruppo di scienziati e giornalisti tedeschi è partito, martedì scorso, per una missione in Guatemala, alla ricerca di un tesoro perduto appartenente ai Maya che sarebbe sommerso sotto il Lago Izabal.
Secondo il quotidiano tedesco Bild, che ha sponsorizzato la spedizione, il team sarebbe composto da due reporter, un fotografo, e un subacqueo professionista che si immergerà nelle acque del lago, nel tentativo di trovare otto tonnellate d'oro.
La spedizione è guidata da Joachim Rittsteig, il quale sostiene di aver decifrato il famoso Codice di Dresda, nel quale sarebbero riportate, in uno dei suoi capitoli, informazioni specifiche che condurrebbero ad un tesoro nel lago di Izabal.
"Il Codice di Dresda conduce ad un tesoro di otto tonnellate di oro puro…a pagina 52 si parla della capitale Maya di Atlan, che venne distrutta da un terremoto il 30 ottobre dell'anno 666 a.C. In questa città erano conservati 2.156 barre d’oro sulle quali i Maya avevano registrato le loro leggi…", ha detto Rittsteig, che ha trascorso più di 40 anni a studiare il documento.
Il tesoro, inabissatosi insieme alla città, dovrebbe ancora trovarsi sul fondo del lago di Izabal, nella parte orientale del Guatemala, così come sembrano confermare le immagini radar in possesso di Rittsteig.
Se la ricerca avrà esito positivo verranno alla luce centinaia di tavolette d’oro per un valore stimato intorno ai 211 milioni di euro.
Il Codice di Dresda, redatto nel 1250 d.C. da parte dei sacerdoti Maya, è uno dei quattro documenti principali che ci rimangono di questa antica cultura, ed è stato ospitato, negli ultimi 272 anni, nella Biblioteca di Stato della Sassonia, in Germania Est.
Joachim Rittsteig ha dedicato gran parte della sua vita alla decodifica di questo documento; l’ultimo capitolo è balzato da tempo agli onori della cronaca poiché, a detta di alcuni ricercatori, descriverebbe gli avvenimenti che avranno luogo il 21 dicembre del 2012.
Fonte: Fox News


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venerdì 2 luglio 2010
AVARIS...LA CITTA' DIMENTICATA

Sotto al delta del Nilo un team di archeologi austriaci ha scoperto i resti di una città che fu la capitale della popolazione Hyksos, una popolazione nomade asiatica.
Avaris fu, circa 1.500 anni prima di Cristo, la capitale egiziana del popolo Hyksos (il cui nome significa «sovrani dei Paesi stranieri»), stirpe nomade asiatica che discese in Egitto al termine del Medio Regno, per governarvi dal 1664 al 1569 a.C.. Ora una missione archeologica austriaca ha localizzato alcuni resti di questa città nei pressi del villaggio di Tell El-Dab'a, nella regione nord orientale del delta del Nilo.
È una scoperta importante per gli archeologi di tutto il mondo. Il team austriaco è presente nell’area già da 35 anni: i primi studi per ritrovare Avaris furono avviati nel 1975. Come ha raccontato l’archeologa a capo della cordata Irene Mueller, grazie all’uso del radar il suo gruppo di studiosi ha potuto identificare la struttura urbanistica di Avaris, e riconoscere diverse vie, costruzioni, abitazioni, templi, un porto affacciato sul Nilo, due isole sommerse, pozzi di diverse dimensioni. Il tutto sotto a una zona particolarmente ricca di verde e coltivazioni, come è possibile vedere nelle immagini da satellite in cui viene sovrapposta l’attuale conformazione fisica del territorio all’estensione della vecchia capitale egizia. Proprio per via delle molte abitazioni e aree agricole presenti oggi nella zona, è difficile fare scavi per portare alla luce gli antichi resti.
A governare questa capitale egizia fu una popolazione che arrivò sul delta del Nilo dall’Asia, gli Hyksos. Veneratori del dio Seth, cui edificarono un tempio ad Avaris, erano composti da semiti e cananei. Da questa città questi nomadi si spostarono poi verso Menfi, ma non governarono mai oltre il Medio Egitto. Furono molti gli scambi con altre popolazioni, negli scritti si trovano infatti tracce dei loro rapporti con Creta, l’Anatolia, le isole dell’Egeo. Come già facevano i faraoni, anche gli Hyksos usavano incidere i propri nomi sugli scarabei (considerati animali sacri) poi collocati tra i bendaggi delle mummie. È grazie a loro che in Egitto si iniziarono a usare i cavalli come animali da traino, e i carri per combattere in guerra.
Fonti: Corriere della Sera.it / Sabrina Bolognini
giovedì 25 marzo 2010
Il tempio più antico del mondo

Gobleki Tepe, una collina nel sud est della Turchia: a nord maestose montagne coperte di foreste, a est la pianura di Harran di biblica memoria, a sud il confine con la Siria.
In questo contesto, secondo l’archeologo Klaus Schmidt, si trova il luogo esatto nel quale, per la prima volta, l’uomo iniziò ad erigere i suoi templi in onore della divinità.
La scoperta, effettuata sotto la supervisione di un team di quaranta ricercatori, potrebbe rivoluzionare l’intera storia della civiltà; un sito costruito 11.500 anni fa, circa 7.000 anni prima della Grande Piramide (basandosi sulle datazioni ufficiali), e più di 6.000 anni prima di Stonehenge.
Dalle rovine, ancora in fase di studio, emergono pian piano i tratti di una civiltà antica e, per molti versi, sconosciuta; i primi rilevamenti portano all’idea di un popolo in transizione, cacciatori nomadi che si avviano verso l’agricoltura e le prime forme di città.
Dopo anni di paziente ricerca, Schmidt ha portato alla luce quello che ritiene essere il primo tempio eretto dall’uomo, il primo complesso religioso distribuito su tutta la collina e composto da cerchi di pietre levigate a forma di enormi T, e che sembrano quasi evocare gli enormi monoliti dell’isola di Pasqua.
Anche se non delle stesse proporzioni del già citato Stonehenge, il cerchio più grande misura 30 metri di larghezza, i pilastri sono alti 17 metri, e il numero delle rovine che vengono alla luce e sempre in crescente aumento.
Le nuove scoperte effettuate a Gobekli Tepe potrebbero rivoluzionare e ridisegnare i contorni dell’archeologia ufficiale.
Credit foto: Berthold Steinhilber
domenica 21 marzo 2010
Misteri di Sardegna: il pozzo bulgaro

Negli anni Ottanta, una archeologa bulgara, Dimitrina Mitova Djonova, portò alla luce un pozzo sacro, un manufatto che avrebbe fatto molto discutere, gettando un ponte tra la Sardegna e la Bulgaria.
Il ritrovamento così sensazionale avvenne sulle sponde del Mar Nero, la l’originalità della scoperta non risiede tanto nel reperto, quanto nella sua straordinaria somiglianza con i pozzi sacri tipici della Sardegna, soprattutto in riferimento a quelli di di Ballao e Paulilatino.
I risultati della scoperta furono pubblicati nel 1983 con il titolo “Megalithischer Brunnentempel protosardinischen Typs vom Dorf Gârlo, bez. Pernik” (“Tempio a Pozzo megalitico protosardo presso l'abitato di Gârlo, frazione di Pernik”), ma passarono del tutto inosservati; soltanto nel 2003 le ricerche vennero riprese da parte di un ingegnere e ricercatore storico cagliaritano, Massimo Rassau, con il supporto di Alessandro Calia (vicepresidente dell'associazione culturale “Sardica” di Sofia).
Secondo gli studi effettuati si tratta di una vera e propria “anomalia” archeologica, visto che quel pozzo non dovrebbe esistere, tranne accettando l’idea che gli antichi sardi fossero giunti in quella zona e ne avessero curato la costruzione.
I pozzi sono esattamente identici, ma chi costruì il manufatto in Bulgaria, e per quale motivo?
Rimane da escludere che due popolazioni, così geograficamente e culturalmente lontane, siano riuscite a risolvere il problema idrico allo stesso modo, e comunque si tratta di una ben strana coincidenza, tranne pensare che gli antichi abitanti della Bulgaria giunsero fino in Sardegna o viceversa.
In ultima analisi è anche doveroso registrare che la tipologia costruttiva di una fonte, un pozzo o una cisterna circolare con falsa cupola, alla quale si accede tramite una scala, è presente in altre aree che si affacciano sul Mediterraneo: Palestina, Creta, Grecia e Turchia. Tali somiglianze porterebbero ad affermare che quelli presenti in Sardegna non sono elementi esclusivi dell'Isola.
Alcuni autori stranieri ipotizzano che questo tipo di costruzione sia da attribuire alla civiltà micenea, ma in ogni caso rimane il fattore temporale; le costruzioni alle quali è stata riconosciuta la valenza di pozzo sacro risultano essere geograficamente sparse ma ascrivibili a periodi storici molto diversi e lontani tra loro.
Unica matrice che li accomuna potrebbe essere, ed è sicuramente, quella religiosa, eppure una traccia che porta all’ipotesi di navigatori Sardi in Bulgaria esiste, e sarebbe auspicabile uno studio molto più approfondito in tal senso.
Questa sottile “prova”, questo esile filo che potrebbe unire storicamente le due regioni, si trova proprio in un saggio della stessa archeologa bulgara autrice della scoperta; si tratta di uno studio sulle migrazioni dei popoli semiti nei territori dell'attuale Bulgaria, pubblicato in “Bulgarians and Jews”, nel quale la migrazione dei Sardi verso le aree dell'Asia Minore viene evidenziata dai “toponimi etnici” che iniziano per Sard o Serd; in Lidia gli abitati di Sard e Sardis, in Misia la città di Sardesos e la montagna di Sardine, in Tracia la località di Serdi o Sardi, e in ultimo, proprio l'antico nome di Sofia, capitale della Bulgaria, ovvero Serdika o Sardika.
Fonte e credit foto: www.andreamameli.it
venerdì 12 marzo 2010
Misteri siciliani: "Santuna"

Anticamente, sul monte Ida, gli spiriti danzavano agli ordini della Grande Madre, battendo le armi e gli scudi per distrarre il terribile Crono.
Questo è quanto racconta la mitologia intorno a questo monte sacro identificato nella Troade, in Asia Minore; in realtà i monti Ida sarebbero due: il primo è quello del quale abbiamo appena parlato, mentre il secondo si trova nell'isola di Creta.
Questa mitica altura è connessa al nome di una antica Dea, Ida o Da, nome che venne in seguito conservato nella figura di Demetra.
Gli echi della Grande Madre sono ancora oggi palpabili in alcune località della Sicilia; quella che abbiamo scelto oggi si trova nei pressi di Palazzolo Acreide e, anche se poco conosciuta, conserva un antico mistero legato proprio al culto di Cibele, la Grande Madre del monte Ida.
I Santuna ai quali facciamo riferimento sono dodici enormi altorilievi, realizzati intorno al III Secolo a.C., che emergono dalla roccia bianca, inquietanti presenza per la gente del luogo, che ancora oggi lascia intravedere un velato senso di antica riverenza.
Le prime testimonianze scritte risalgono alla seconda metà del Settento, redatte dal Principe Ignazio Paternò Castello, profondamente colpito dall'aura mistica che sprigionava l'intero sito archeologico.
Pochi anni dopo, Jean Houdel, pubblica l'opera "Voyage pittoresque", dedicando ai Santuna ben tre tavole; le riproduzioni, non proprio fedeli, portarono a confondere l'effige della Grande Madre con una divinità degli inferi, innescando un pensiero ai limiti della superstizione che sopravvisse per decenni.
Quello che rimane è comunque il maggior santuario finora noto, dedicato al culto della Dea Cibele, una intera montagna posta a testimonianza della Grande Madre, dove tutto è sacro poichè parte viva della Dea, comprese le balze selvagge nella quali vennero scolpite le sue immagini.
Una testimonianza poco conosciuta ancora in attesa di essere approfondita, custode di un antico passato che grida ancora i suoi misteri e non trova spesso orecchie disposte all'ascolto.
giovedì 11 marzo 2010
Le fontane dei Maya

In uno studio pubblicato sul Journal of Archaeological Science, l’antropologo Kirk French e l’ingegnere Christopher Duffy fanno il punto su un condotto progettato per generare acqua pressurizzata a Palenque (Messico), un grandioso centro urbano Maya.
“Gli antichi Maya sono rinomati come grandi costruttori, ma sono raramente considerati dei grandi ingeneri. Le loro costruzioni, sebbene spesso grandi e imponenti, sono generalmente ritenute non sofisticate”, dicono gli autori dello studio. Tuttavia, molti centri Maya mostrerebbero degli avanzati impianti per “manipolare in qualche modo l’acqua per vari scopi”.
Palenque, fondata intorno al 100 d.C., arrivò a contare circa 1500 fra templi, case e palazzi, intorno all’800. Il suo antico nome, Lakam Ha’ (Grandi Acque), è significativo: qui si trovavano 56 sorgenti, 9 corsi d’acqua perennemente navigabili, acquedotti, laghetti, dighe e ponti.
Un acquedotto di circa 66 metri, datato dal 250 al 600, è un eccezionale esempio di ingegneria idraulica: questo condotto rettangolare era interrato lungo un ripido pendio e si restringeva bruscamente alla fine.
Oltre a conservare l’acqua per i periodi aridi, secondo i calcoli eseguiti il getto d’acqua che si sarebbe potuto sprigionare avrebbe raggiunto i 6 metri di altezza.
Fonte: USA Today
mercoledì 10 marzo 2010

NEL SEGNO DELLE PIRAMIDI
Un possibile collegamento antidiluviano per la piana di Giza. Teorie, prove e ragionevoli dubbi potrebbero riaccendere il dibattito mai sopito sulla origine delle Piramidi.
Un problema di angolazione.
Da quando gli studiosi scoprirono l’egittologia, il mondo intero venne a conoscenza di uno dei misteri più antichi e più affascinanti lasciatoci in eredità dalla storia, quello delle Piramidi.
Seguendo una linea di pensiero molto generalizzata, le Piramidi erano indubbiamente delle tombe; le ultime dimore dei Faraoni, immensi tumuli nei quali si trovavano le camere mortuarie, organizzate in maniera tale da impedire il più a lungo possibile gli eventuali saccheggi da parte dei predoni.
Nella fattispecie rimangono comunque molti misteri non ancora risolti, uno dei quali è sicuramente quello che interessa le tre Piramidi principali poste nella Piana di Giza; se infatti le tombe dei Faraoni sono costituite dall’abile sovrapposizione di mattoni in terra cruda, lo stesso non vale per le altre, vere e proprie pile di pietre tagliate, perfettamente assestate senza fare uso di malta, allineate e squadrate in maniera tale da non poter infilare tra i blocchi nessun tipo di lama, neanche la più sottile.
A questo quadro costruttivo bisogna aggiungere due considerazioni: in primo luogo appare evidente che le Piramidi, o quantomeno le tre principali, vennero costruite in un solo colpo, seguendo un progetto completo e senza ripensamenti o ritocchi; in secondo luogo appare altrettanto evidente che gli eredi di questi costruttori sembrano non avere alcuna idea dei procedimenti adottati in precedenza, e il risultato è abbastanza visibile nei ritocchi e nei cambi di progetto apportati alle costruzioni successive.
Un esempio di questa strana “dimenticanza” ci viene offerto dall’inclinazione stessa delle Piramidi successive, calcolabile in 52 gradi; la Grande Piramide risulta però edificata su un angolo quasi impossibile, un angolo non consentito da nessun dato geometrico conosciuto. Questa particolare angolazione, non verificabile esattamente a causa del rivestimento distrutto, potrebbe essere data dal numero aureo; inutile dire che si tratta di una pendenza sicuramente ottenibile attraverso il calcolo ma estremamente complessa da ottenere su scala piramidale.
Perché gli antichi egizi “dimenticarono” improvvisamente i segreti della costruzione di una Piramide?
Problemi temporali.
Da qualunque punto di vista si voglia osservare la questione, risulta molto improbabile che ben tre generazioni di costruttori siano riuscite ad erigere i monumenti di Giza e i loro successori, nel giro di qualche anno, abbiano dimenticato la tecnica di edificazione.
Unica spiegazione logica sarebbe quella che vede i costruttori alle prese con un progetto già esistente, ovvero costretti a dover studiare e riprodurre un monumento che si trovava a Giza prima del loro arrivo e che i Faraoni, scambiandolo per una tomba, decisero di adottare come loro estrema sepoltura.
Ipotizzando che la scelta di Cheope per la sua ultima dimora sia caduta su un monumento già esistente, quali argomenti si potrebbero portare a sostegno? E soprattutto, chi costruì veramente la Grande Piramide?
Cerchiamo intanto di capire per quali motivi questo monumento potrebbe non essere il sepolcro del Faraone; il primo regnante che decise di adottare una Piramide come sepolcro fu Zoser, il quale affidò al proprio architetto il compito di replicare quella che sembrava a tutti gli effetti essere la costruzione perfetta per ospitare il corpo di un Dio; il risultato non fu certo dei migliori, l’architetto realizzò un cumulo di terra e pietre a forma piramidale ma assolutamente lontano dalla perfezione della Grande Piramide. Lo stesso problema interessò Cheope ma la sua soluzione fu molta diversa da quella del suo predecessore; il Faraone decise che, se non era replicabile il progetto già esistente, tanto valeva usarlo al proprio scopo!
Il problema delle iscrizioniAnche se nessuno, stranamente, ne sembra sorpreso e non se ne parli molto in giro, la Grande Piramide non presenta al suo interno alcuna iscrizione; questo è sicuramente un particolare fuori dal comune per una tomba reale ma anche un presupposto che potrebbe confermare come la costruzione venne innalzata per uno scopo differente da quello che l’egittologia ci vuole tramandare.
La Piramide stessa era ricoperta da iscrizioni, almeno all’esterno, secondo quanto ci tramanda Erodono, e non si trattava certo di indicazioni segrete visto che erano esposte alla luce del sole.
Oggi purtroppo questi segni sono scomparsi con il paramano; gli unici segnali rimasti sono quelli che si trovano nella camera sotterranea, dove ancora uno è visibile, inciso sul soffitto e stranamente simile ai petroglifi galiziani che si trovano vicino a Santiago di Compostela. Purtroppo in entrambi i casi il significato ci è ancora ignoto. Altri simboli riscontrabili a Santiago si trovano all’entrata della discenderia, sotto quella che era un tempo una porta di pietra descritta da Andrè Pochan nel suo libro “L’enigma della Grande Piramide”.
L’enigma della costruzione
Chi costruì dunque la Grande Piramide? Non esiste alcuna iscrizione che possa datare con certezza la sua costruzione nei tempi in cui i geroglifici erano in uso, non esiste alcun cartiglio riferibile a Cheope, eppure il monumento si erge prepotente verso il cielo sfidando ogni possibile teoria.
Unica cosa certa sarebbe che il Faraone scelse la Piramide come sua ultima dimora, ma se la costruzione era già esistente sarebbe anche probabile che fece allestire la sua tomba sotto le fondamenta, tanto che nessun ritrovamento è mai stato fatto in merito.
Chi dunque costruì la Piramide?
Dati i dubbi persistenti, non provati, ma sicuramente troppo densi di interrogativi per non essere presi in seria considerazione, una probabile soluzione sarebbe quella di retrocede la costruzione delle Piramidi ancora prima della discesa dei Faraoni dall’Etiopia.
In quel periodo la pianura di Giza doveva certamente essere il luogo ideale per tramandare un messaggio che interessasse non soltanto gli abitanti del luogo ma tutti coloro che avrebbero avuto modo di viaggiare in quei posti; il delta del Nilo è una formazione abbastanza recente dovuta ai depositi alluvionali del fiume stesso; questo significa che un tempo il Mediterraneo giungeva fino al Cairo, ovvero ai piedi della Piana di Giza.
Alla luce di quanto appena riportato sarebbe opportuno rivedere la funzione di quei depositi per le barche ritrovati vicino alle Piramidi, non più mezzi per trasportare il Dio verso la terra degli antenati, come narra la leggenda egizia, bensì depositi per i mezzi di trasporto adoperati dai veri costruttori delle Piramidi.
Furono quindi mariani i misteriosi costruttori della Grande Piramide?
Problemi di interpretazioneIntorno al 1400 a.C., Tutmosi IV, obbedendo a un ordine avuto in sogno, ripulì la Sfinge dalle sabbie che la coprivano; in memoria dell’evento venne posta tra le zampe della scultura una stele con una iscrizione: Oggi purtroppo i segni sono stati cancellati dagli agenti atmosferici, ma ancora nel 1818 era possibile leggere nella tredicesima riga il nome di Chefren.
Dato lo stato di conservazione della stele, non si riuscì purtroppo a stabilire se la traduzione fosse esatta e neanche a stabilire in quale contesto il nome del Faraone fosse citato; il presupposto che la sillaba “chef” si riferisse a Chefren venne sposato dagli studiosi e divenne il legame “storico” che accomunerebbe la Sfinge a Cheope.
Riprendendo la teoria di una preesistenza della Grande Piramide e della stessa Sfinge, è opportuno riportare alcuni fatti: nel 1904, il direttore del British Museum, Sir E. A. Budge, annotò che la Sfinge esisteva già al tempo di Cheope e quasi sicuramente era già, in quello stesso periodo, molto più antica. Se quindi la sillaba “chef” si riferiva a Cheope ne indicava soltanto il primo restauratore e non il costruttore.
Successivamente, nel 1905, l’egittologo americano J. H. Breasted, fece notare come non esistesse alcuna traccia di cartiglio intorno alla sillaba “chef”, fatto abbastanza inconsueto nell’Egitto dinastico, dove i nomi dei Faraoni venivano sempre trascritti all’interno di una cornice ovale. Visto questo presupposto, la sillaba “chef” sarebbe semplicemente un riferimento al sole, e più esattamente si esprimerebbe in termini quali “si alza” oppure “sorge”; in tal senso è giusto far notare che la Sfinge stessa, pur avendo la testa d’uomo, rimane comunque un leone e che il sole di primavera si trovava nel segno del leone tra i 10.000 e gli 8.700 anni a.C.!
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