giovedì 14 giugno 2012
Roswell: i testimoni dimenticati
Molte persone, stando ai loro racconti, hanno avuto la vita segnata dai fatti di Roswell, e molte di queste persone sono state in parte dimenticate, messe in disparte rispetto ai vari articoli sensazionalistici e alle innumerevoli rivelazioni, o pseudo tali, che hanno caratterizzato questa vicenda.
Due di loro sono Dee Proctor e Vernon Brazel, la terza è George Wilcox, sceriffo di Roswell, la cui vicenda, come vedremo, è particolarmente intrigante.
Dee Proctor era quel bambino di circa sette anni che si trovava in compagnia di Mac-Brazel al momento della scoperta dei resti, mentre Vernon viene citato raramente nelle cronache dell’incidente di Roswell, e più precisamente soltanto in un articolo del Roswell Daily Record che ricorda come il ragazzo, nel luglio 1947, avesse appena otto anni e fosse presente al momento del ritrovamento.
Non appena compì la maggiore età Vernon lasciò il New Mexico trasferendosi di stato in stato, cambiando addirittura nome, fino a quando, ancora giovane, non si suicidò sparandosi un colpo di pistola alla testa.
Vernon in quel periodo aveva un amico, quasi coetaneo, con il quale condivideva gli anni spensierati della gioventù; insieme svolgevano piccole mansioni settimanali e qualche lavoro estivo nel ranch; anche quella estate del 1947 erano impegnati in una di queste attività…l’amico di Vernon si chiamava Dee Proctor.
Quello che oggi sappiamo di Vernon, insieme ad altre notizie sui fatti del ’47 e su quello che accadde ai due piccoli testimoni, lo dobbiamo alle dichiarazioni rilasciate qualche anno fa da Loretta Proctor, matrigna di Dee.
Loretta era presente quando portarono a casa alcuni pezzi recuperati dal campo di detriti, e riferendosi a quello recuperato da Mac Brazel lo descrive di colore marrone chiaro, molto leggero, simile al legno di Balsa e di non più di quattro centimetri di lunghezza, liscio come la plastica.
Secondo il racconto di Loretta, i due ragazzi si trovavano sul posto quando venne scoperto il campo di detriti, ed erano sempre insieme a Mac Brazel quando quest’ultimo, in un sito a circa due miglia e mezzo di distanza, scoprì qualcos’altro. Dee non rivelò mai quale fosse stata la scoperta; ne fece un breve accenno soltanto nel 1994; in seguito si sottrasse a qualsiasi intervista e morì nel 2006.
Nonostante il “silenzio stampa”, Dee accennò qualcosa sia a Loretta che alla sorellastra, raccontando che non soltanto lui e Vernon erano stati testimoni di quanto avvenne a Roswell ma anche altri ragazzi tra i quali i figli di Thomas Edington (proprietario di un ranch poco lontano), una delle figlie di Truman Pierce, altro proprietario di una fattoria poco distante e Sydney Jack Wright.
Quest’ultimo, nel 1998, parlò di corpi di piccole dimensioni, con grandi teste e occhi minuscoli.
Loretta Proctor vive adesso con la figlia a Comanche (Texas) e nonostante la veneranda età sembra abbia ancora molto da dire in merito ai fatti accaduti a Roswell.
Uno degli scenari che la donna ricorda con grande precisione è quello che descrive il clima di estrema confusione sorto intorno al ranch, insieme all’immagine di Dee con in mano i pezzi raccolti e la sua titubanza nel confidarsi con l’Esercito, nonostante la promessa di quest’ultimo in merito ad una lauta ricompensa da devolvere a chiunque fosse stato in grado di fornire notizie e prove riguardanti il “disco volante”.
Il giovane Proctor non si fidava dei militari, e questa sua diffidenza era condivisa da molta altra gente che abitava nella zona; d’altra parte non si era ancora sopita la rabbia per la confisca, avvenuta pochi anni prima, di un tratto di terra proprio nelle vicinanze, il lotto era stato utilizzato per creare un sito da destinare ad una deflagrazione di prova.
Dee e Vernon erano quindi presenti nel campo di detriti, la loro presenza può essere registrata ancora prima che arrivassero i militari, e nulla ci porta ad escludere che uno dei due o entrambi raccolsero qualcosa e lo portarono via; d’altra parte considerando la loro giovane età, la forte curiosità che tipicamente caratterizza questo periodo della vita e l’assoluta unicità dell’evento, questa ipotesi diventa altamente probabile.
Vernon rimase profondamente sconvolto, e questo non tanto per la scena che si ritrovò ad osservare, quanto per le conseguenze che ebbe nella sua vita; ebbe molti problemi di adattamento e divenne il bersaglio delle battute dei suoi coetanei, almeno fino a quando non decise di lasciare quel luogo che tanto negativamente stava pesando sulla sua vita.
Cambiò spesso cognome; lo ritroviamo registrato come Tannehill o Tunnecliffe, e visse in vari paesi spostandosi di continuo tra il Montana, la California e la Virginia, in ogni caso non ritornò mai più in New Mexico e mise fine ai suoi tormenti suicidandosi in completa solitudine.
Questa tragica fuga è documentata da vari documenti appartenenti alle registrazioni militari; Vernon Brazel era presente a bordo della USS Hassayampa e il suo nome risulta nei database civili della California e della Virginia.
L’unica cosa che accomunò la vita di Vernon a quella di Dee Proctor fu l’estrema riluttanza nel parlare dei fatti accaduti a Roswell.
Dee rifiutò sistematicamente di condividere i suoi ricordi, fuggendo addirittura quando si presentava qualche giornalista o qualche ricercatore; una di queste fughe avvenne proprio in presenza di Loretta, quando, nel 1980, mentre quest’ultima era impegnata in salotto a discutere proprio del crash di Roswell, Dee fuggì utilizzando una porta sul retro.
Questa sua forma di grande riservatezza, quasi a livello maniacale, si acutizzò ancora di più quando cadde preda dell’acool, e il suo istinto di fuga venne sostituito da una reazione di grande collera che scoppiava istantaneamente al solo udire il nome Roswell.
Dee Proctor morì a 66 anni in seguito ad un attacco cardiaco, portandosi dietro non pochi segreti, oltre che la risposta ad un quesito che ha sempre solleticato la fantasia dei ricercatori: perché Mac Brazel non dissi mai che si trovavano insieme al momento del ritrovamento?
Chiaramente voleva proteggere il ragazzo, ma proteggerlo da cosa? Era soltanto un modo per tenerlo lontano dai riflettori e dalle illazioni della gente, oppure avevano trovato e condiviso qualcosa di particolare?
Erano forse stati testimoni di uno scenario completamente differente da quello che venne poi reso dai militari?
Questo atteggiamento “protettivo” è stato in seguito portato avanti anche da Loretta; la donna non ha mai risposto direttamente alle domande riguardanti Dee e quello che avrebbe visto o portato via dal sito, in queste occasioni Loretta ha sempre detto di non ricordare esattamente quei particolari, eppure, e per sua stessa ammissione, era a casa quando Dee ritornò dal campo di detriti, così come ha spesso confermato che fu proprio Dee a trovare per primo il sito e avvertire Mac Brazel.
Addentrandosi ancora di più in questa complicata vicenda, aumentano in maniera esponenziale i dubbi; Dee Proctor, infatti, non soltanto scoprì per primo il sito ma, sempre sulla scorta delle affermazioni di Loretta, ne visitò anche un altro, a circa due miglia e mezzo di distanza, e fu proprio questa seconda scoperta che lo traumatizzò per il resto della sua vita.
Cosa vide nel secondo sito?
Anche questa informazione non avrà mai una risposta; Dee non parlò mai di questo avvenimento e l’unica volta che vi accennò non fece altro che complicare involontariamente le cose; nel 1994, infatti, indicando la posizione su una mappa, gli sfuggì questa frase: “…qui è dove Mac ha trovato qualcos’altro…”
Una “confessione” meno laconica avvenne però qualche anno prima, nel 1990, quando il ricercatore Kevin Randle, avendo telefonato a Loretta Proctor per una intervista, sentì dall’altro lato dell’apparecchio la voce di Dee.
Si trattava ovviamente di una occasione più unica che rara, una di quelle che nessun ricercatore si sarebbe fatto sfuggire facilmente; Randle cercò di trattenere Dee al telefono e le risposte che ottenne, sia pure molto poche e tirate fuori quasi a malincuore, furono davvero stupefacenti.
Questo quanto confermò il giovane testimone:
Si trovava insieme a Mac Brazel sul luogo dello schianto e lo ricordava perfettamente.
Le autorità militari erano venute a Roswell e si erano intrattenute a lungo con lui in merito all’incidente.
Insieme a Mac Brazel erano rimasti per alcuni minuti ad osservare una vasta area cosparsa di detriti metallici.
Successivamente si recò ancora una volta nel sito insieme ad altri suoi amici.
Quest’ultima affermazione venne in seguito confermata dalle ricerche effettuate da Tom Carey e Don Schmitt, i quali appurarono che gli amici citati da Dee erano due ragazzi e una ragazza; i primi due erano i figli di Thomas Edington, mentre la ragazza era la figlia di Truman Pierce.
Questa breve confessione non contempla però la “sottrazione” di alcuni detriti e neanche lo scenario del quale fu testimone; ritorna quindi la domanda posta precedentemente: cosa vide Dee Proctor?
Doveva sicuramente trattarsi di qualcosa di estremamente particolare, e non tanto in riferimento alla fantasia di un adolescente, visto che non furono pochi gli agenti dei servizi segreti che si recarono in New Mexico, in vari periodi, per tenere d’occhio il giovane testimone.
Quest’ultima circostanza ci viene ricordata dallo scrittore e ricercatore Nick Redfern il quale, nel 1980, raccolse la testimonianza di un ex agente dell’Intelligence che si dichiarava “letteralmente disgustato” dal trattamento che i militari e i servizi segreti avevano riservato al giovane Dee Proctor.
L’uomo si riferiva a continue vessazioni psicologiche che andarono avanti negli anni, tanto da infondere quella profonda paura manifestata da Dee ogni volta che si accennava a Roswell.
I militari, continuava il testimone di Redfern, consideravano Dee Proctor come soggetto profondamente coinvolto nel caso Roswell, a tal punto da costituire una vera e propria preoccupazione.
Ancora una volta ritorna prepotente il quesito posto poco prima: cosa aveva visto Dee Proctor?
Se da una parte è vero che non riusciremo mai ad avere una risposta, è altrettanto vero che potremmo almeno provare a restringere il campo delle nostre ricerche e, di conseguenza, quello delle ipotesi; per muoverci in queste due direzioni abbiamo ancora bisogno dell’aiuto di Loretta Proctor.
Durante l’estate del 2011, Loretta si reca a far visita alla nipote e in quell’occasione registra i ricordi del crash, aggiungendo alcuni particolari molto significativi, compreso il fatto che Dee mantenne per tutta la vita il segreto su quanto aveva trovato e nascose alcuni frammenti che non riuscì più a riprendere visto che si trovava sempre sotto stretta sorveglianza e non poteva fidarsi di nessuno.
Due storie misteriose, costellate da innumerevoli dubbi, inserite in uno scenario nel quale si trovano in buone compagnia, visto che gli avvenimenti dei quali si rese protagonista il terzo personaggio citato in apertura non si presentano certo meno enigmatici di quelli appena raccontati.
La persona in questione è George Wilcox, che in quel periodo ricopriva il ruolo di sceriffo e che effettuò la famosa chiamata con la quale avvisava l’esercito locale della scoperta effettuata da Mac Brazel.
Per quanto la figura di Wilcox sia stata sempre dipinta come di marginale importanza, in realtà il suo ruolo richiede una più attenta analisi, trattandosi di un coinvolgimento molto più profondo e nascondendo forse un altro segreto da aggiungere ai molteplici enigmi di quel luglio 1947.
I personaggi coinvolti in questo scenario sono le due figlie di Wilcox, la nipote, il suo vicino di casa e i suoi collaboratori; ultima, ma non certo in ordine di importanza, la moglie dello sceriffo la quale scrisse un dettagliato racconto di quanto accadde a Roswell, una testimonianza poco nota conservata negli archivi di una altrettanto sconosciuta società storica; sarà quindi necessario riprendere gli avvenimenti per meglio focalizzare i punti oscuri di questa nuova vicenda.
George A. Wilcox era lo sceriffo di Chaves County nel 1947; nel luglio di quello stesso anno Mac Brazel si presentò nel suo ufficio portandosi dietro alcuni detriti alquanto insoliti che disse di aver ritrovato nei pressi del suo ranch.
Wilcox non si rese subito conto di quanto stava accadendo e neanche riuscì a capire cosa fossero quei frammenti in mano a Mac Brazel, ma rimase abbastanza perplesso da decidere di andare in fono alla questione.
Di certo giudicò abbastanza grave la vicenda, tanto che decise di avvertire i militari, decisione che prese dopo aver visionato il materiale portato da Brazel e che certo non avrebbe preso qualora si fosse trattato dei resti di un pallone o di carta a fiori.
Questa circostanza ci porta a pensare che anche Wilcox vide di persona i veri resti contenuti nel campo di detriti, particolare che giustificherebbe la sua repentina estromissione dal caso; all’arrivo dei militari, infatti, venne “consigliato” allo sceriffo di non recarsi nel sito, consiglio dato anche ai suoi collaboratori.
Il resto della vicenda è abbastanza noto, così come sono note le successive dichiarazioni che però si scontrano con quanto raccontato dalla moglie e dalle due figlie.
Geoge e Inez Wilcox avevano due figlie, Phyllis e Elizabeth, oggi in pensione ed entrambe convinte che il padre fu testimone, nel 1947, di un evento di connotazione extraterrestre.
Phyllis (sposata McGuire) è delle due quella che ha maggiormente divulgato i suoi ricordi in merito alla vicenda; è stata proprio lei a parlare del coinvolgimento del padre, del fatto che fosse stato in possesso di materiale proveniente dal campo di detriti, di come avesse mandato alcuni suoi aiutanti nella zona e di come avesse visto una macchia di bruciato nell’erba dalle dimensioni di un campo di calcio, concludendo che qualcosa di molto grande e circolare avesse toccato terra.
Non appena aver appreso la notizia, Phyllis si recò dal padre chiedendo informazioni sul caso e, soprattutto, per capire se veramente credeva a quanto riportato dai vari quotidiani.
Wilcox tentennò, confermando che Brazel gli aveva portato alcuni pezzi e aggiungendo un particolare: i resti visionati sembravano carta stagnola ma quando venivano toccati, piegati o manipolati ritornavano sempre alla loro forma originale. Fu proprio questo particolare che convinse lo sceriffo a telefonare ai militari.
Non sappiamo esattamente a cosa si riferisse Wilcox, potremmo ipotizzare che si trattasse di un particolare materiale di origine metallica “a memoria”, qualcosa che sembrava conservare un “ricordo” della sua forma originale, qualcosa che di certo in quel periodo non esisteva sulla Terra.
Di contro, la madre di Phyllis non è mai stata molto prodiga di informazioni; soltanto una volta, agli inizi degli anni ’70, rispose ad alcune domande della figlia pronunciando il termine “alieni” e confermando la presenza di corpi, dei quali uno ancora in vita ma deceduto dopo poco tempo.
Lo scenario disegnato dalla signora Wilcox differisce da quello del marito, soprattutto quando accenna ad esseri con una testa sproporzionata rispetto al corpo molto piccolo e occhi minuscoli, oppure quando fa riferimento alla paura del marito per le ritorsioni che avrebbe potuto subire l’intera famiglia nel caso avesse parlato dei fatti di Roswell in termini diversi da quelli ufficiali.
Anche in questo caso si innesca un meccanismo di protezione che porta al silenzio; Mac Brazel tenta di proteggere Dee, Wilcox teme per la sua famiglia, Loretta Proctor si comporta allo stesso modo; tutta una serie di coincidenze che disegnano il quadro delle forti pressioni subite da questi personaggi.
Continuiamo con il racconto di Phyllis: Wilcox si recò sul posto prima dell’arrivo dei militari ma non riuscì a trovare subito il luogo dell’incidente; quella che trovò lungo il percorso e prima di arrivare al campo di detriti, fu invece una vasta area caratterizzata da un enorme cerchio annerito; quando più tardi i militari arrivarono in quella zona delimitarono ogni via di accesso e nessuno riuscì ad evitare lo sbarramento.
Questo particolare di una zona bruciata risulta abbastanza interessante perché non riguarda soltanto la testimonianza della famiglia Wilcox; altre persone, infatti, compresi gli ufficiali della Roswel Army Air Field (RAAF) Chester Barton e Lewis Rickett, parlarono separatamente di una vasta area all’apparenza bruciata; lo stesse fece un militare, Glenn Dennis, il quale dichiarò di aver visto la stessa area sporgendosi dal camion che lo portava nel luogo dell’incidente.
A sostenere la tesi di Phyllis interviene anche Barbara Wilcox Dugger, nipote di George e figlia di Elizabeth Wilcox.
Per un certo periodo di tempo Barbara visse insieme alla moglie dello sceriffo; Wilcox era morto da poco e la nipote rimase a dare conforto alla vedova. Una sera, trovandosi insieme a guardare la Tv, si imbatterono in un documentario che accennava al tema degli Ufo, e proprio da questo scaturì un dialogo del quale riportiamo un breve riassunto.
Barbara chiese a Inez se credeva ci fosse vita nello spazio, questa rispose affermativamente, poi, dopo una breve pausa, gli disse che voleva raccontarle qualcosa, raccomandandole di non parlarne in giro.
Quando avvennero i fatti di Roswell, i militari arrivarono nell’ufficio del marito, minacciando di morte lui e la sua famiglia qualora avesse parlato in merito all’accaduto fornendo la prima versione resa e che aveva confidato alla moglie.
Cosa non avrebbe dovuto raccontare Wilcox?
Non avrebbe dovuto parlare dell’area bruciata, del fatto che nel campo di detriti giacevano quattro corpi, di cui uno ancora vivo.
Un giorno Wilcox confidò alla moglie che dopo quell’avvenimento aveva tanto desiderato non essere lo sceriffo, non essere mai stato in quel luogo; da onesto e leale cittadino americano non poteva fare altro che l’interesse del suo paese, e se questo interesse coincideva con quanto detto dai militari non aveva altra scelta che uniformarsi alla versione ufficiale.
A supporto di quanto appena riportato, riprendiamo adesso il discorso interrotto poco prima, quello riguardante il famoso documento manoscritto stilato dalla moglie di Wilcox.
La memoria si trova presso la Historical Roswell Society; si tratta di un racconto autobiografico dal titolo “Four Years in the County Jail” e include una menzione dell’incidente occorso al marito che vale la pena citare integralmente: “…un giorno un allevatore mi portò a nord della città per vedere quello che diceva essere un disco volante. C’erano stati molti rapporti in tutti gli Stati Uniti da parte di persone che sostenevano di aver visto dei dischi volanti; le voci erano contrastanti, alcuni pensavano che provenissero da un altro pianeta, altri che fossero un’arma segreta dei tedeschi. Dal momento che nessuno aveva mai visto un disco volante, Mister Wilcox decise di chiamare il quartier generale presso la ex RAAF per segnalare il ritrovamento. Si presentò un ufficiale comunicando che aveva l’ordine di portare via l’oggetto affinché venisse studiato attentamente.
Contemporaneamente il telefono iniziò a squillare e fu così per tutta la giornata; l’ufficiale intimò a WIlcox di mantenere il silenzio più totale e di smistare tutte le chiamate verso la base militare”.
Risulta evidente che Inez sapesse molto di più di quanto riportò nel suo racconto; chi altri poteva essere al corrente degli avvenimenti che si svolsero nell’ufficio dello sceriffo?
Non possiamo non ricordare i suoi collaboratori, ma anche loro sembrano aver risentito di quel clima di terrore che si riuscì a spargere tra i testimoni.
Il vice sceriffo Bernie Clark, che tra l’altro fu il primo a stilare la relazione in merito al racconto di Mac Brazel, non accettò mai di rispondere ai giornalisti e, a quanto sembra, mantenne lo stesso atteggiamento anche con la famiglia.
Tommy Thompson, l’altro vice, ha da sempre dichiarato di non voler essere coinvolto in questo caso, testimoniando di essere stato assente quel giorno dal proprio ufficio, notizia in seguito smentita dai suoi figli.
In che modo si riuscì a mettere a tacere questi uomini di legge e per così tanto tempo?
A rendere sempre più plausibile l’idea di una coercizione nei confronti dei testimoni concorre il racconto fatto da Rogene Cordes, in quel periodo cassiere presso una banca di Roswell e vicino di casa di George Wilcox.
Anche se non molto convinto nel divulgare la sua versione, Cordes disse esplicitamente che sia George che Inez erano stati pesantemente minacciati e avevano paura; dopo quanto era accaduto erano completamente cambiati.
Il coinvolgimento dello sceriffo era quindi totale e una ulteriore testimonianza ce ne offre la prova; tra i residenti a Roswell nel 1947 c’era anche Ruben Anaya, collaboratore volontario del Governatore del New Mexico Joseph Montoya.
In un racconto datato 1990, Anaya parla della visita effettuata da Montoya presso la base militare e di come questi fosse particolarmente agitato quando, al ritorno, raccontò di aver visto dei corpi e l’imbarcazione che si era schiantata nel deserto.
La parte interessante di questo racconto, che in qualche modo lo lega a Wilcox, arriva quando si descrive il ritorno di Montoya in albergo e lo sceriffo che lo aspetta proprio all’ingresso.
Non si trovava certo lì per una visita di cortesia, in realtà portava un messaggio da parte dei militari, una esortazione a non dire nulla di quanto aveva visto e sentito.
Altra storia molto simile a questa, che descrive la figura dello sceriffo come ormai completamente in mano ai militari, è quella narrata da Glenn Dennis, all’epoca impresario di pompe funebri presso la Ballard Funeral di Roswell.
Wilcox e il padre di Dennis erano molto amici, ma quando lo sceriffo lo andò a trovare non era certo in nome di questa amicizia.
Wilcox raccomandò al padre di Dennis di controllare attentamente ogni dichiarazione del figlio; non avrebbe mai dovuto parlare di quello che aveva visto o sentito perché questo avrebbe potuto causare gravi ripercussioni sull’intera famiglia.
Perché lo sceriffo Wilcox agiva in tal modo? Era veramente convinto del proprio operato o stava soltanto portando avanti un copione scritto da altri, una recita alla quale non aveva modo di sottrarsi?
Molto verosimilmente la figura di Wilcox è quella di un uomo preso tra due fuochi, estremamente scosso per quello che ha visto e altrettanto spaventato per le dure minacce subite; non può mettersi contro i militari e non può neanche sperare che qualcuno creda alla storia che potrebbe raccontare.
Schiacciato tra l’incudine e il martello decide di proteggere la sua famiglia, anche al costo di diventare impopolare, di mentire anche e soprattutto a se stesso.
Lo sceriffo venne sopraffatto dagli eventi, schiacciato dal peso della conoscenza e da una piccola città che in quel momento era diventata il centro del mondo, una cassaforte da proteggere a tutti i costi poiché conteneva e continua a custodire uno dei più grandi segreti della storia.
Fonti e approfondimenti:
http://www.alienresistance.org
http://roswellinvestigator.com
Michael Hesemann / Philip Mantle - Beyond Roswell - Marlowe & Company
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